La quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza 13993, depositata il 14.4.2021, è tornata ad occuparsi del trattamento sanzionatorio conseguente al reato di diffamazione a mezzo stampa, chiedendosi se, ed eventualmente quando, la condanna a pena detentiva possa essere giustificata.
Con ampia citazione della giurisprudenza CEDU, nonché di quella costituzionale e dei suoi stessi precedenti, i giudici di legittimità sono giunti alla conclusione (che, per vero, ribadisce approdi giurisprudenziali già in via di consolidamento), in base alla quale il carcere per il giornalista diffamatore è ammissibile solo in casi estremi e gravissimi, in quanto, diversamente opinando, la sola minaccia della pena detentiva svolgerebbe un effetto di deterrenza talmente incisivo da determinare il così detto chilling effect (secondo la terminologia della Corte europea), vale a dire l’intimidazione del giornalista che sarebbe indotto a rinunziare – per prudenza o timore – a svolgere la sua essenziale funzione di “cane da guardia della democrazia”.
Diffamazione e carcere: è dunque un problema di proporzionalità.
La reclusione andrebbe eccezionalmente “riservata” ai casi veramente estremi, quali, a mo’ di esempio, quelli in cui si istiga all’odio ovvero si propugna la discriminazione razziale.
La sentenza, tuttavia, contiene anche un aliquid novi nella parte in cui estende il ragionamento anche alle ipotesi di diffamazione mediatica, per così dire “extragiornalistiche”, vale a dire quando il privato, utilizzando gli strumenti telematici, diffonda notizie, critiche e opinioni.
Anche in questo caso, secondo la Corte, per non violare i principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza, la pena detentiva dovrebbe essere riservata alle sole “ipotesi eccezionali”.
Già, ma è da chiedersi, quali sarebbero in concreto tali ipotesi?
L’esemplificazione fatta dalla CEDU – e recepita un po’ supinamente dalla nostra giurisprudenza – non è molto felice, in quanto, almeno nel nostro ordinamento, la propaganda razziale e l’istigazione all’odio, se effettuate pubblicamente (e dunque certamente a mezzo stampa), integrano di per sé reati ben più gravi della diffamazione (art. 414 c.p. istigazione a delinque e apologia di delitto, art. 604 bis c.p. propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa), di talché il delitto di diffamazione, in applicazione del principio di specialità, dovrebbe essere assorbito da tali fattispecie.
Vanno allora ricercate altre ipotesi – se esistono – di tale gravità da giustificare il più severo trattamento sanzionatorio da riservare al diffamatore (giornalista o “privato”).
Sul punto l’elaborazione giurisprudenziale non è di grande aiuto, in quanto si limita a recitare formule astratte, chiedendo che l’azione diffamatoria sia tale da aver leso un diritto di livello costituzionale almeno pari alla libertà di parola, di informazione e di divulgazione del proprio pensiero. E tuttavia, se si sostiene – correttamente – che l’art. 21 Cost. (libertà di manifestazione del pensiero) costituisce la “pietra angolare” della democrazia, risulta difficile individuare altro diritto o pubblico interesse a tutela del quale possa essere irrogata la pena detentiva a chi quel diritto ha strumentalizzato per denigrare persone, gruppi, associazioni o istituzioni.
Non resta allora che confidare nel “mandato” che la Corte costituzionale (ordinanza 131 del 2020, ricordata nella sentenza che si annota) ha affidato al Parlamento: “individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica, dall’altro, di assicurare adeguata tutela della reputazione individuale, disegnando un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco”.
Aspettando, dunque, il salvifico intervento delle Camere, nel frattempo, per quanti riguarda la diffamazione e carcere si naviga a vista.