Chi ha passato tanti anni in magistratura sa bene che la valutazione della professionalità dei magistrati non è obiettiva.
I consigli giudiziari, che sono i primi “valutatori” (poi la parola passa al CSM) sono eletti da quegli stessi magistrati il cui operato professionale essi devono poi valutare. Non sembra il massimo della terzietà dei valutatori e della loro indipendenza di giudizio.
A tali valutazioni non prendono, attualmente, parte né i professori universitari, né gli avvocati che pure contribuiscono a comporre i predetti organi. La conclusione è che quasi tutti i magistrati sono giudicati validi, se non eccezionalmente preparati.
Questo comporta un ingiusto appiattimento e mortifica chi merita una “vera” valutazione superlativa, perché si vede accomunato al collega medio o addirittura mediocre. Comporta anche che chi dovrebbe essere estromesso dall’ordine giudiziario, in genere, la fa franca.
Tuttavia la soluzione prospettata dal quesito referendario non convince.
Ammettere anche gli avvocati a valutare i magistrati del distretto non sembra ragionevole. Pur volendo riporre la massima fiducia nella rettitudine e nei propositi di imparzialità di questi professionisti, non sembra prudente che essi siano chiamati a giudicare il livello professionale di chi ha dato loro torto o ragione.
Soluzione migliore sarebbe quella di coinvolgere, oltre ai professori universitari, magistrati e avvocati di altro distretto giudiziario.
Ma questo è ancora poco.
Bisognerebbe comunque ancorare i giudizi a dati obiettivi, valutando, ad es., quante indagini di quel PM sono state confortate dalle decisioni dei magistrati giudicanti, quante sentenze hanno “retto” in appello o in cassazione, quante impugnazioni sono state accolte e così via. E qui sarebbe necessario (ma non sufficiente) attivare un semplice sistema di messaggistica.
Mi spiego: il magistrato il cui provvedimento viene riformato in appello o in cassazione può non venirne mai a conoscenza e quindi non può sapere perché il suo “prodotto” è stato bocciato. Ad esempio, come è noto, quando la cassazione annulla con rinvio una sentenza, investe del nuovo giudizio un’altra sezione di quello stesso ufficio giudiziario (o, addirittura, ad altro ufficio giudiziario).
Quindi chi ha emesso il provvedimento bocciato può non sapere come e perché e può quindi persistere inconsapevolmente nella sua interpretazione giuridica non condivisa in sede nomofilattica e/o nella condotta processuale che, nella medesima sede, è stata ritenuta non corretta.
Se, viceversa, fosse possibile (e certamente lo è) comunicare il “provvedimento correttivo” anche all’autore del provvedimento corretto, si farebbe una ovvia (e proficua) opera di affinamento professionale e, al contempo, si raccoglierebbe materiale per una valutazione “sul campo” della preparazione dei magistrati.