La Corte di cassazione (sezione quinta penale), con una sentenza depositata il 19.10.2020 (n. 28847, udienza del 7.9.2020), ha affrontato il problema delle ricette mediche “facili”.
Falsa ricetta, falsa diagnosi.
Il fatto (incontroverso) era il seguente: un sanitario aveva compilato e rilasciato una c.d. “ricetta bianca” per l’acquisto di un determinato farmaco, ricetta consegnata dal sanitario non all’apparente avente diritto, ma ad altra persona, reale destinatario della prescrizione (e della medicina).
L’accaduto era già stato riqualificato dal giudice di merito ai sensi dell’art. 481 c.p. (falsità ideologica in certificati, commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità), qualificazione che la Corte ha ritenuto corretta, atteso che, quando il medico compila la “ricetta rossa”, vale a dire quella che comporta l’erogazione della prestazione a carico del Servizio Sanitario Nazionale, egli agisce in qualità di pubblico ufficiale.
Quando viceversa utilizza il ricettario “bianco”, agisce come privato, esercente, appunto, un servizio di pubblica necessità (come l’avvocato, l’assicuratore, il professionista – ingegnere, architetto, geometra – che rediga planimetria allegata alla domanda volta ad ottenere il permesso di costruire, ecc.).
In tal caso il paziente paga di tasca sua la medicina e il Servizio Sanitario Nazionale non viene coinvolto.
Il giudice di legittimità ha anche condiviso l’opinione della Corte di appello che aveva ravvisato la falsità ideologica “implicita” nel rilascio della ricetta.
Il fatto è che ogni indicazione terapeutica presuppone un accertamento diagnostico. Ecco perché falsa ricetta, falsa diagnosi.
Vale a dire che, se il medico prescrive il “farmaco x”, ha evidentemente accertato (o avrebbe dovuto accertare) che il paziente presentava i sintomi di quella malattia che il predetto farmaco avrebbe potuto curare o attenuare.
Non per questo la Corte ha ritenuto che ogni prescrizione medica debba essere (sempre e necessariamente) preceduta da una visita, dal momento che, per pazienti affetti da malattie croniche o, comunque, con riferimento a pazienti le cui ricorrenti patologie siano già note al sanitario, quest’ultimo, se prescrive i farmaci “consueti”, può anche fare affidamento sull’anamnesi e sulla sua memoria. Quindi in questo caso non si tratta di falsa ricetta.
In tal senso è stato reinterpretato l’art. 22 del codice deontologico dei medici, in base al quale il sanitario deve attestare solo dati clinici che abbia direttamente constatato.
Dunque, per la Corte di legittimità, ogni prescrizione medica comporta una implicita attestazione di verità e, in questo senso, si parla di certificato medico. E tuttavia la parola “certificato” non ha la stessa accezione tecnica che ha in altre norme (es. art. 480 cp), atteso che, come chiarito da consolidata giurisprudenza (tra le ultime: Cass. sez. 5, sent. n. 49221, dep. 26.10.2017, ud. 4.10.2017), il certificato (amministrativo) è quel documento – proveniente da un pubblico ufficiale – che sia connotato dalla presenza di due condizioni:
a) l’atto non deve attestare i risultati di un accertamento compiuto dal pubblico ufficiale redigente, ma deve riprodurre attestazioni già documentate
b) pur quando riproduca informazioni desunte da altri atti già documentati, esso non deve avere una propria distinta e autonoma efficacia giuridica, ma si deve limitare a riprodurre anche gli effetti dell’atto preesistente (cfr. Cass. sez. 3, sent. n. 46239, dep. 12.10.2018, ud. 12.7.2018).
Il certificato medico, viceversa, esplicita il risultato di un accertamento tecnico-valutativo compiuto personalmente dal sanitario che lo sottoscrive e, dunque, la sua eventuale falsità è frutto di una consapevole immutatio veri da parte di chi ha volutamente “sbagliato” un accertamento tecnico che avrebbe dovuto essere condotto alla luce di una collaudata metodologia professionale e di indiscussi parametri scientifici.