Le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 35814, depositata il 7 agosto 2019, hanno risolto un contrasto che si trascinava da alcuni anni sulla rilevanza penale del “falso in fotocopia” – o “falso per composizione” – quando tale documento è relativo ad un originale … inesistente.
“Il falso per composizione” è una creazione del tutto artificiale che, attraverso l’utilizzo delle moderne tecnologie, viene “spacciata” come la copia fotostatica di un originale, apparentemente custodito altrove, ma che, in realtà, non è mai stato “prodotto”.
Cosa può essere identificato come “falso per composizione”?
Falsi certificati medici, falsi permessi di circolazione per handicappati, falsa carta di identità, falso permesso di sosta, falsa ricevuta di versamento ecc.
Tutti – falsi – documenti realizzabili con la tecnica della “fotocomposizione” o con le altre tecniche “computeristiche” oggi disponibili.
Al proposito la giurisprudenza di legittimità (essenzialmente le sezioni quinta e sesta della Suprema corte) aveva assunto tre posizioni distinte:
- la prima consisteva nel ritenere che il falso – integrale – in fotocopia fosse sempre penalmente rilevante
- la seconda gli attribuiva rilevanza penale quando la fotocopia recasse la attestazione di conformità ad un originale (art. 2719 cod. civ.) in realtà – come abbiamo visto – mai venuto ad esistenza;
- la terza riteneva che si fosse in presenza del delitto di cui all’art. 476 cod. pen. solo se la fotocopia venisse presentata, non come tale, come l’originale.
Le Sezioni unite, con una sentenza che, per verità, non si segnala per chiarezza espositiva, hanno affermato che, solo nel caso in cui la copia di un atto inesistente assuma l’apparenza di un atto originale, siamo di fronte ad una vera e propria falsità materiale; nel caso contrario, no.
Ovviamente se la fotocopia “del nulla” viene accreditata come l’originale, non assume alcun rilievo la mancata attestazione di conformità all’originale, per la buona ragione che l’agente vuol far credere che quello sia l’originale.
Se viceversa la predetta attestazione – falsa anche essa, come è inevitabile – è presente sulla fotocopia, essa ben potrebbe essere atta a testimoniare l’esistenza di un originale e dunque, a quanto è dato comprendere in base alla non chiarissima motivazione, anche avrebbe rilevanza penale.
Negli altri casi si tratterebbe di niente altro che di un falso in scrittura privata (art. 485 cod. pen.), ipotesi, tuttavia, come è noto, depenalizzata nel 2016 (decreto legislativo n. 7 art. 1).
Resta il fatto, per altro, che anche nei casi in cui il falso non sia di per sé punibile, la condotta del falsificatore, globalmente considerata, non necessariamente andrà esente da sanzione penale.
Infatti, dato il prevedibile scopo truffaldino di un simile operato, nel caso esso dovesse superare la soglia del tentativo punibile (o, a maggior ragione, se si trasformasse in un effettivo artificio o raggiro), saremmo ampiamente nel perimetro di punibilità dell’art. 640 cod. pen. e dei suoi “stretti parenti” (es. 640 bis, 643 cod. pen. ecc.).