La prescrizione – di cui tanto si discute ormai da tempo – è stata oggetto di due importanti sentenze da parte delle Sezioni Unite penali.
Nel primo caso in relazione agli effetti di una recidiva non esplicitamente contestata e pertanto ritenuta inoperante sul piano della estinzione del reato.
Nel secondo caso, in relazione alla possibilità per la parte civile di impugnare una sentenza che, a suo giudizio, potrebbe averla erroneamente dichiarata.
Vale la pena di esaminare separatamente le due decisioni che pure hanno un “filo conduttore” comune.
Con la sentenza n. 20808 depositata il 15.5.2019 (ud. 25.10.2018, pres. Carcano, est. Dovere), le Sezioni Unite hanno avuto modo di chiarire che la recidiva, della quale non sia esplicitamente dichiarata la applicazione, non può influire sul calcolo della prescrizione (ai sensi dell’art. 157 comma 2 cp).
Ciò nemmeno nel caso in cui i precedenti penali dell’imputato siano stati valorizzati dal giudice per negargli le attenuanti generiche.
In altre parole non esiste la recidiva per facta concludentia: vale a dire che essa non può essere ritenuta semplicemente sulla base dei precedenti penali dell’imputato, se poi detti precedenti non abbiano comportato un aumento di pena (appunto in conseguenza della ritenuta recidiva) o non siano – esplicitamente – confluiti in un giudizio di bilanciamento tra aggravante della recidiva, come tale qualificata, ed eventuali circostanze attenuanti riconosciute al giudicabile.
Con la sentenza n. 28911, depositata il 3.7.2019 (ud. 28.3, pres. Carcano, est. Andreazza), le Sezioni Unite hanno affermato che, quando la parte civile sostenga che erroneamente è stato dichiarato prescritto il reato, essa può impugnare la sentenza.
Questo accade sia che la prescrizione sia stata dichiarata in primo grado, sia nel caso in cui sia stata confermata in appello. In pratica si tratta di quei casi in cui la parte civile, appunto, intenda contestare che l’estinzione del reato si sia verificata.
Il massimo consesso giusdicente fonda la legittimazione ad impugnare da parte dell’accusa privata sul primo comma dell’art. 576 del codice di rito penale. La decisione infatti fa leva sulla attenta lettura della norma, cui non è di ostacolo il contenuto di altri due articoli (538 e 578).
Invero, nel concetto di “sentenza di proscioglimento”, non può non essere compresa la sentenza dichiarativa di prescrizione, considerato il suo effetto certamente liberatorio.
D’altra parte, il principio in base al quale, in tanto si può procedere al risarcimento del danno, in quanto vi sia stata una sentenza di condanna, è derogato proprio dall’art. 576 cpp.
Invero, se la parte civile può impugnare (agli effetti civili, ovviamente) una sentenza assolutoria pronunziata in giudizio, ovvero ai sensi dell’art. 442 cpp, non si vede perché dovrebbe rimanere disarmata nei confronti di una dichiarazione di prescrizione che ritiene erroneamente applicata.
Quanto all’interesse ad impugnare, esso viene ovviamente ravvisato, nel caso di appello, nello scopo di conseguire il rovesciamento della sentenza, con conseguente affermazione di responsabilità in capo all’imputato – da cui deriva la condanna al risarcimento.
Nel caso di ricorso per cassazione, nell’obiettivo di ottenere l’annullamento della sentenza, con conseguente rinvio al giudice civile (art. 622 cpp), evitando di iniziare daccapo l’azione risarcitoria.
La decisione, aderendo alla tesi maggioritaria (sia pure di misura), sana un contrasto protrattosi negli anni (sentenze dal 2012 in poi).