La legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), ha – tra l’altro, con l’art. 10 – introdotto nel codice penale l’art. 612 ter in materia di illecita diffusione di video e immagini sessualmente espliciti (c.d. revenge porn).
La condotta è descritta in due commi.
Il primo prevede l’operato di colui che, dopo aver realizzato o sottratto tali video e/o tali immagini, li “invia, consegna, cede, pubblica o diffonde”, senza il consenso della persona rappresentata e a condizione che il detto materiale fosse destinato a rimanere riservato.
Il secondo riguarda colui che, avendo ricevuto o acquisito le immagini o i video in questione, a sua volta, li “invia, consegna, cede, pubblica o diffonde”, sempre senza il consenso dell’interessato, ma – si badi bene – al fine di recare nocumento allo stesso.
Come per altri reati della medesima natura, è prevista la perseguibilità a querela (nella ipotesi “base”), ma il termine per la proposizione della istanza punitiva è quello “lungo” – 6 mesi – ed è previsto che la remissione sia solo processuale.
Si procede viceversa di ufficio nel caso in cui la vittima sia un “soggetto debole” – persone in stato di inferiorità psichica o fisica, ma anche donna in stato di gravidanza. In questo caso (comma 4) è anche prevista un’aggravante ad effetto speciale – pena aumentata da un terzo alla metà – mentre un’aggravante (semplice) è quella di cui al comma 3 – se il soggetto attivo sia il coniuge, non rileva se separato o divorziato, o comunque una persona legata alla vittima da relazione affettiva.
Il terzo comma, poi, prevede anche altra aggravante, consistente nella diffusione dei video o delle immagini tramite strumenti informatici o telematici.
È facile, a tal punto, prevedere che la maggior parte dei casi che si presenteranno sarà aggravata (oggi come oggi) dall’utilizzo dei predetti mezzi di comunicazione.
È altrettanto facile prevedere che la giurisprudenza si interrogherà probabilmente sul concetto di video o immagini sessualmente espliciti.
Tracciare una linea di confine, nei casi dubbi, tra video e immagini allusivamente erotici e contesti comunicativi esplicitamente sessuali non sarà sempre agevole.
Quanto all’elemento psicologico, è evidente la differenza tra il primo e il secondo comma. Nel primo caso, il dolo è generico, nel secondo (non si capisce bene perché), è previsto come specifico.
Prima della introduzione di una norma ad hoc, la condotta sopra descritta era solitamente inquadrata nel delitto di diffamazione (aggravata eventualmente – quasi sempre – dall’uso del messo telematico: es. Cass. sez.5, sent. n. 42643 del 2004 rv 230066 + sez. 3, sent. n. 19659 del2019 rv 27595).
Il “nuovo” delitto costituisce, in ultima analisi, di una fattispecie che potrebbe collocarsi a metà strada tra la diffamazione (appunto) e lo stalking (art. 612 bis cod. pen.: es. Cass. sez. 6, sent. n. 32404 del 2010 rv 248285 + sez. 5, sent. n. 26049 del 2019, rv 276132) e che il legislatore del 2019 ha inteso inserire tra i delitti contro la libertà morale.
Va da sé che, se l’agente si proponesse di raggiungere uno scopo che vada oltre la semplice mortificazione del soggetto passivo, si aprirebbe la strada ad altre ipotesi delittuose (es. estorsione).
In questo senso appare utile – ma non era indispensabile – la clausola di salvaguardia che apre l’art. 612 ter (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”).